“Stupido pezzo di alluminio!”, ovvero: come riconciliarsi con la bici (e con le proprie paure).

Cari amici Cinghiali, innanzitutto auguro a tutti voi una serena Pasqua.
Quest’oggi non ho report di gare, eventi o viaggi da proporvi, ma voglio raccontarvi una storia personale.
Ho iniziato ad andare in bici perché me lo ha ordinato il medico. Letteralmente. Dopo due interventi chirurgici alle ginocchia, è arrivato il veto: niente corsa, niente sci, non saltellare in palestra (quest’ultimo non lo avrei fatto comunque: mi ci vedreste a zompettare su e giù da uno step in tutina attilata? Uhm…). Non rimanevano che il nuoto e la bicicletta. Trovando, personalmente, abbastanza monotono il ciclismo su strada, decisi di optare per la mountain bike. E fu amore.
Due anni dopo, dovetti lasciare la mia amata, sudata ed appena acquistata Enduro in garage per alcuni mesi, a causa di un incidente stradale abbastanza tosto (un giretto a Lourdes, magari?).
Il ritorno in sella fu drammatico, complici la condizione fisica inesistente e un assetto tutto nuovo, con molti millimetri in più rispetto alla vecchia bike. Ma soprattutto, avevo paura di qualsiasi cosa e anche il più banale passaggio tecnico mi sembrava insormontabile e pericolosissimo.
Impiegai un anno a riprendere confidenza con i trail di Pogno e comunque, qualcosa continuava a frenarmi.
Lo scorso agosto, in vacanza a Sauze d’Oulx, accadde una specie di miracolo e sembravo un’altra persona. In discesa mi comportavo davvero bene, mi sentivo veramente “aggallata”, la paura sparì completamente e mi resi conto di aver imparato più cose in quei pochi giorni a Sauze, che in tutti i quattro anni di pratica. Fino al penultimo giorno in cui, stanca come un somaro, le braccia mi abbandonarono e feci una rotolatina da nulla in mezzo ad un cespuglio. Il panico si impadronì nuovamente di me, ma decisi di non mollare. L’ultima discesa della giornata fu da incubo. Il respiro pesante e il sudore che colava lungo il viso e la schiena non erano causati dalla fatica o dal caldo, ma dal terrore che mi attanagliava. Ancora adesso, non saprei dire di cosa avessi paura, ma ero atterrita.
Caddi altre due volte, mi fermai, ma risalii in sella ed arrivai in fondo lo stesso. Fu tutt’altro che divertente, ma arrivai in fondo. In sella. Senza scendere a piedi.
Lì per lì, tornata in albergo, ero tristissima. Quando mi sembrava di aver superato tutto, la mia atavica paura era tornata ad affacciarsi e a rovinarmi la festa, a distruggere quella fantastica sensazione adrenalinica di libertà che ero tornata a provare dopo tanto tempo.
Furono i miei amici e Daniele a farmi notare una cosa: solo l’anno precedente, nella stessa situazione, non sarei risalita in sella, avrei preso la bici per mano e mi sarei fatta tutto il trail a piedi. Questa volta, no, ero arrivata in fondo, seppur non divertendomi, ma avevo affrontato la mia paura. Era fatta. Mi ero riconciliata col mio stupido pezzo di alluminio marrone anodizzato ma, soprattutto, con le mie paure, che rimangono lì e a volte cercano di rialzare la testa. Ma sono più forte io.
Ancora una volta, per me, la bici è stata una compagna fedele che mi ha dato una grande spinta per affrontare gli ostacoli.

“Cadi sette volte, rialzati otto” (proverbio giapponese)